Nella retorica nostrana, quando non si è capaci di arrivare ad un punto, si tende a screditare ciò che qualcuno ha fatto di meglio. La volpe che non arriva all’uva. No, non è il caso di Amazon.
E’ il caso di centinaia di migliaia di imprese che in Italia hanno investito a tempo debito nel digitale. Imprese che hanno formato il proprio personale, investito in logistica, in sviluppo di portali e-commerce, siti vetrina o blog, per raccontare la propria attività, renderla reperibile e avvicinabile. Attività che hanno svolto del sano social media management, realizzando comunicazione di brand, di prodotto e sviluppando social commerce, financo all’estero, con ambizione, quanto con remunerative campagne ben profilate, con cui aggredire nuovi target e nuovi mercati.
E gli altri? Stanno a guardare. Nel 2020 è impensabile scagliarsi contro Amazon senza aver fatto nulla per evitare che Amazon cannibalizzasse il mercato interno. Molte PMI in Italia preferiscono affiliarsi al colosso del web, piuttosto che investire nella disintermediazione. Meglio l’uovo oggi che la gallina domani. Ed è così che da vittima si diventa carnefici. Commissioni, costi e digitalizzazione senza esperienza di brand, identità, senza fidelizzazione al consumo, preferite ad un lavoro lungimirante di strutturazione strategica e digitale.
Con una logistica impazzita, in una corsa al ribasso, al just in time, pagato a caro prezzo da dipendenti mossi come pedine impazzite, con un braccialetto contapassi che misura il tempo di riuscita di ogni processo, Amazon ha ulteriormente aumentato fisiologicamente il suo volume di affari nell’anno del covid.
Lo scenario dei diritti del lavoratore, dello sviluppo delle attività è sotto gli occhi di tutti, ma molte affermazioni su Amazon sono infondate o maliziosamente ritoccate ad arte.
- Evasori fiscali? Non del tutto. Non in Italia. Non con i prodotti italiani. Amazon ha una sua linea, che fattura in Lussemburgo (per l’Europa- facendo dumping) e prodotti terzi di affiliati, la cui vendita è tassata secondo il Paese in cui si opera la compravendita. Tra IRAP, IRPEF e IVA Amazon Italia nel 2019 ha versato al fisco 230 milioni di euro.
- Anti-trust? Qui il vero punto dolente. Amazon gode di una posizione privilegiata, data dal contesto e dall’economia di scala che può applicare. Nel momento in cui la pandemia ha bussato alle porte dell’Europa, ci si è resi conto della necessità di amazzonizzarsi. Su questa posizione, Amazon ha fatto forza, puntando a vendere non i prodotti degli affiliati, ma i propri, (spesso dalle manifatture-schiavitù di mezzo mondo sommerso) avvantaggiandosi della propria posizione, non solo per la chiusura delle attività, ma privilegiando la vendita della propria merce a danno degli affiliati, gestendo i dati di questi ultimi.
- Minaccia? Si, ma solo nel momento in cui fa leva sulla posizione di dominio sul mercato globale e nel caso di violazione dei dati degli affiliati per vendere la propria merce e non quella degli affiliati.
- Opportunità? Si, affiliarsi ad un provider strutturato, riconoscendone i costi di commissione, per vendere ciò che altrimenti rimarrebbe invenduto, resta un’opportunità. Strutturare un listino prezzi con un pricing dinamico, facilita la gestione dei costi, per trarne utili senza restare alla canna del gas.
Perciò Amazon deve far discutere più della sua posizione sul mercato che non come strumento di mercato. Dei diritti violati sulla privacy, degli stipendi da fame e non sulle tasse (versate) derivanti dai profitti di aziende affiliate. Amazon deve essere uno strumento, una risorsa per strategie strutturate, in un’ottica di competizione globale, con un pricing dinamico, mentre si lavora e si investe su una struttura in housing capace di avere un volume più basso di ordini, ma al contempo più alto nei fatturati.