Il viale della stazione ha ancora gli odori della notte passata su panchine e marciapiedi. I primi rumori dai viali svegliano la città, i trolley a ritmo crescente danno il via ai primi strombazzamenti di auto in coda e bus vuoti che non sanno dove andare. Lo sanno, ma non c’è scritto, ne a bordo, ne sulle pensiline. Quali pensiline?
Le auto, fiumi di auto, restano il mezzo più usato per venire a vedere la città; e trovali mezzi alternativi, capillari, affidabili, facilmente raggiungibili.
Finestrini chiusi, troppo caldo, mentre la città lenta e ammaccata si risveglia dalla movida della notte precedente. Il calore fa esalare più facilmente la fogna ricolma a filo di tombino. Fortuna, perché nelle marine della città non è cosa da tutti avere uno scarico fognario. Le blatte si svegliano, e iniziano a seguire i piedi forestieri nelle infradito.
Affannosamente ed in ritardo la municipalizzata raccoglie e pulisce ciò che riesce, il resto resta, e non c’è via di scampo.
Qualche chilometro di strada in mezzo alle buche, anzi, qualche chilometro di buche in mezzo alle strade, e si cerca il parcheggio, un gioco tipico del villaggio vacanza leccese. Ma muoviti con i mezzi! Monopattini, bus, bici, scooter. Certo, fammici arrivare. E fammici tornare, visto che le ciclabili sono disegnate per gli amanti dell’enigmistica, le pedonali sono illuminate, ma sono state dipinte con inchiostro simpatico che sparisce quando ci metti il piede sopra, e in città tutte le segnaletiche orizzontali hanno meno vita di “campana”, il gioco disegnato a gesso e mani nude sugli asfalti di noi nati prima degli smartphone.
L’odore del pasticciotto, scandisce la prima mattina ed il caffè in ghiaccio con latte di mandorla rinfresca. I rustici sono in forno e le leccornie tipiche hanno tempo, quello che non hai per prenotare i ristoranti, già tutti esauriti per cena, viva Dio. “Mieru, pezzetti e cazzotti” il famoso stornello leccese, ma del vino poca traccia, si va di spritz, neanche fossimo a Padova. I pezzetti (bocconcini di cavallo) sostituiti da burger di ogni tipo, neanche fossimo nell’Illinois. I cazzotti si salvano, quelli da sferrare contro la propria macchina appena scoperta la multa, o per ressare meglio nella calca tipica da raccomandazione covid.
Cerchi cartapesta trovi bangla. Sbirci per terracotta e ceramica e trovi Kasanova. Cerchi sartoria e trovi Zara, putee (botteghe) e trovi Mc Donalds. Il calore ti porta a mare, rigorosamente in macchina, non hai scampo. Si rientra al tramonto nel B&B in centro, vatti a ricordare quale, ce ne sono uno a 1 metro dall’altro, ma sono sempre più qualificati e meno improvvisati.
La città si illumina, il suo barocco splende, le vie, le piazzette, le chiese, gli anfiteatri, i portoni e i cortili, una meraviglia senza eguali.
Si cena, il ristorante è in una via, i tavolini arrivano in un’altra, i tavolini arrivano ovunque. Passa il trenino turistico in mezzo alla folla, sgasa che puzza. Gli ambulanti senza alcuna licenza allestiscono bancarelle che neanche nel mercato di Istanbul. Sono ovunque, interdicono l’ingresso della più bella piazza, quella del Duomo, nella quale entrano ed escono auto della curia, taxi, qualche infiltrato, a rovinare il selfie. Vai di foto panoramica, no, si vedono le impalcature su cui beffardamente si legge “aver cura”, affianco i soliti pakistani con cover, palloncini colorati.
Drink nella movida, passeggiata su via Trinchese, la Walk of Fame di Lecce. Non rimarrà impressa una stella ma la stampa della tua scarpa che calca gelato, vari liquidi, resti di cibo e qualunque cosa cada dai cestini non più in grado di contenere. Schivi la folla, ma qualche genio ha deciso di mettere fuoco alle polveri, con eventi musicali da urlo nella zona più congestionata della città, nel periodo più caotico, a svilire ancora di più la bassa stagione, senza decentrare il caos. Le basi, le stesse che servivano per seguire le raccomandazioni per contenere il rischio contagio. Ciaone.
Lecce meta ambita, in cui si incontrano facilmente turisti di tutto il mondo, giovani come anziani, coppie, single, famiglie o gruppi di amici. Il barocco illuminato dal sole caldo, le vie della movida, i colori. Il mare, gli eventi, la cucina. E fin qui solo applausi, occhi stropicciati.
Poi c’è la città, quella di tutti i giorni, quella che parla di turisti e turismo solo quando finisce la “stagione”. La città che non comprende l’importanza di amministrare il turismo, di tutelarlo come prima industria cittadina.
La capitale del barocco, il capoluogo dello splendido Salento. Mille etichette, paragoni. “Lecce, la Firenze del sud”.
No, Lecce è Lecce. Del sud è del sud, a volte troppo, profondo sud, come la mentalità di quei geni messi a governare tanta bellezza. Nella sua esagerata bellezza, l’incuria e l’incapacità atavica di fare turismo, di arrivare preparati ad accogliere, gestire i flussi. A governare il turismo, non a subirlo.
“Tanto tornano” , loro. La città nella sua identità no, perché qualcuno ha deciso di cedere il passo alla turistificazione predatoria, sregolata, insensata, fino a quando i numeri del cosa, non basteranno a spiegare il come si è rotto l’incantesimo.